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Quando si parla di traduzione letteraria, si entra in un mondo dove le parole non sono solo suoni o segni grafici. Esse diventano ponti tra culture, esperienze e emozioni. Ho sempre pensato che la traduzione non sia solo un mestiere, ma una vera e propria arte, specialmente quando quella lingua è il giapponese. Ricordo quando, a ventotto anni, ho messo piede per la prima volta in Giappone: un’esperienza che ha cambiato la mia vita.
Il primo incontro con il Giappone
Era il 1974 e, per la prima volta, mi ritrovai immersa in una cultura che conoscevo solo attraverso stereotipi e poche traduzioni. La mia curiosità era alle stelle, eppure mi sentivo un pesce fuor d’acqua. A quel tempo, le librerie di Parigi offrivano solo qualche titolo di autori giapponesi, e la mia scarsa conoscenza dell’inglese non mi avrebbe di certo aiutato. La mia curiosità si scontrava con una realtà che sembrava inaccessibile.
Quando finalmente decisi di visitare il Giappone, fu come aprire un libro che non avevo mai letto prima. Ogni angolo, ogni suono, ogni profumo raccontava una storia. E così, spinta dall’amore per la letteratura e dalla voglia di comprendere, iniziai a studiare la lingua giapponese. Non è stato facile; all’inizio, sapevo a malapena una dozzina di parole. Ma la mia passione era più forte di qualsiasi difficoltà.
La bellezza della traduzione e la cultura giapponese
Già nei primi mesi di soggiorno, il mio rapporto con il Giappone si rivelò idilliaco. Vivendo con i miei suoceri a Osaka, ho avuto modo di immergermi nella quotidianità giapponese. Eppure, a un certo punto, ho iniziato a percepire una barriera. Le interazioni con i giapponesi erano gentili ma superficiali. Mi sembravano tutti così rigidi, incapaci di empatia. Ma, come spesso accade, la verità era molto più complessa.
La mia prospettiva cambiò radicalmente quando iniziai a leggere letteratura giapponese in traduzione inglese. Scoprire opere come “Io sono un gatto” di Natsume Soseki fu un colpo di fulmine. Quella narrativa era carica di emozioni e complessità, e mi fece rendere conto che i giapponesi provavano sentimenti profondi, proprio come noi. D’altronde, la letteratura si nutre delle esperienze umane, e Soseki era un maestro nel raccontarle.
Il potere della lingua e della traduzione
Mentre leggevo sempre più romanzi giapponesi, cominciai a nutrire un desiderio: tradurre queste opere in italiano. La traduzione non è solo un lavoro meccanico; è un atto creativo che richiede sensibilità e comprensione profonda della cultura di origine. Ricordo che, quando finalmente decisi di tradurre “L’uomo scatola” di Abe Kobo, sentii il peso della responsabilità. Volevo portare a galla la bellezza e la complessità di quel racconto, senza perdere la sua essenza.
Ogni parola scelta, ogni frase rielaborata, richiedeva un’intensa riflessione. La sfida era trovare le giuste sfumature, poiché il giapponese e l’italiano non si parlano affatto la stessa lingua, né in senso letterale né figurato. Ad esempio, la parola giapponese “kokoro” racchiude in sé significati di cuore, mente e spirito, un concetto intraducibile in una sola parola italiana. Ma non è stata solo una questione di traduzione; è stata anche una questione di connessione emotiva.
La minaccia dell’intelligenza artificiale
Oggi, mentre assistiamo a un incremento dell’uso dell’intelligenza artificiale anche nel campo della traduzione, mi chiedo: cosa perderemo in questo processo? La velocità e l’efficienza non possono sostituire la profonda comprensione umana delle emozioni e delle sfumature culturali. Come può un algoritmo comprendere la bellezza di un “bakemono” (mostro) se non ha mai sentito la paura o la meraviglia?
Ricordo una conversazione avuta con un collega traduttore che, preoccupato per il futuro della professione, mi parlava di un possibile mondo dominato da traduzioni automatiche. Ma, in fondo, che valore avrebbero? La letteratura è un’esperienza umana, e l’arte della traduzione richiede più di semplici parole; richiede passione, intuizione e, cosa più importante, l’abilità di trasmettere sentimenti.
Un viaggio continuo
Oggi, mentre continuo a tradurre opere giapponesi, sono grata per il percorso che ho intrapreso. Ogni libro che traduco è una nuova avventura, un’opportunità per esplorare il profondo legame tra cultura e linguaggio. La traduzione è, e rimarrà, un atto d’amore verso le parole e le storie che ci uniscono, indipendentemente da dove proveniamo.
In questo viaggio, ho imparato che alla fine, non è solo la lingua che conta, ma anche il cuore che mettiamo nel nostro lavoro. E questo, amici miei, è qualcosa che nessuna intelligenza artificiale potrà mai replicare.